Di nastri, di dischi e di stelle.

Approfondimenti vari

“Nel mezzo del cammin di nostra vita……”.
Parrebbe un fecondo principiar,
ma già ci debbo rinunciar:
da qualche lustro andato
il punto d’equilibrio è scavallato!
Ma se non fosse per quello “mezzo” troppo azzardato,
l’incipit sarebbe stato assai azzeccato.

Qui discorreremo un po’ di fonti e di supporti, ovvero dei dispositivi con i quali la musica si intrufola nel Vostro sistema di riproduzione audio, nella stanza, nelle case.
Nel mondo dell’hi-end audio essi, questi aggeggi, sono, a loro modo, una selva oscura di mezzi e dati, mefistofelici ordigni dall’aspetto frequentemente seducente, dal funzionamento qualche volta astruso, affatto raramente responsabili del tenere l’amante dell’audio lì a soffriggere per tempo immemore nel purgatorio dell’incertezze, delle ansie, delle speranze messianiche per il celestiale suono che prima o poi verrà.

Secondo il creatore del marchio Linn e del successo del giradischi Sondek LP12, la macchina a cui si affida la traduzione in musica di certe variazioni elettro-magnetiche o di certi codici digitali è il più importante anello della catena audio perché… se le informazioni non vengono estratte dal supporto, poi non le potrai riprodurre! Non esisteranno! Puoi avere i migliori diffusori e il miglior finale, ma per amplificare cosa?

Questo, in una scarna sintesi, sosteneva Ivor Tiefenbrun negli anni dell’alta fedeltà esoterica a cavallo fra i ‘70 e gli ’80 del secolo scorso. Non si può affermare che non venne ascoltato! La sua tesi è (fu) ovviamente difficilmente confutabile, anche se il così estremisticamente  considerare solo la fonte è altrettanto ovviamente piuttosto limitante: se hai il più fantasmagorico dei giradischi, ma a valle di esso l’amplificazione è pigra, i diffusori suonano rendendo la musica striminzita e  l’acustica della stanza è melmosa (piaccia o non piaccia, è quest’ultimo l’anello della catena di riproduzione che apporta il contributo più ingente di distorsione, di allontanamento dai contenuti del segnale musicale originale) a che serve avere un mirabolante dispositivo di lettura?

Equilibrio. Ecco la risposta. La robustezza di una catena è determinata da quella del suo anello più debole e la riproduzione audio è un concatenarsi di passaggi, un insieme di connessioni e di stazioni. Ecco: servirebbe equilibrio.

Certamente però concordammo col Tiefenbrun sul fatto che …chi ben comincia …

Penso che l’hi end dell’audio sia (stato) un fatto generazionale. A mio parere ne ha coinvolte tre, di cui la mia, i nati fra il 1950 ed il 1970, è quella … di mezzo (ecco che la “Comedia” ritorna…)

La mia è anche quella più popolosa, quella che ha fatto fare più numeri più ingenti ai mercati. E’ preceduta da quella dei “fondatori”, i contemporanei alla nascita della stereofonia, più riservati, defilati, forse anche più creativi ed accurati.

Alla mia succede la generazione degli attuali quaranta-cinquantenni che qui da noi non ha fatto fare gli importanti volumi d’affari come i contemporanei del non più così lontano oriente.
Con e dopo quest’ultima, la pratica dell’ascolto della musica cambierà ancor più radicalmente.
Li vedete voi gli attuali e i futuri giovani seduti in mezzo ad una stanza, lì, quasi immobili, davanti a non altro che due diffusori?

Già oggi dobbiamo chiuderci a doppia mandata, celarci, nasconderci agli occhi e dalle lingue delle amiche e degli amici delle mogli o di qualche marito rarissimo, dei compagni tatuati dei figli e leggere timidi ed in disparte gli articoli “cartacei” di sempre più rare e rade riviste audio. Risultiamo strani. Non fatevi illusioni: sembrerete tali anche se scaricherete brani musicali dalla rete ed aggeggerete più o meno maldestramente sul tablet per farli suonare (non mi includo perché, essendo antiquato, non ho un tablet …). Per la gente, oggi, la musica si ascolta con lo smartphone mentre si fa altro (si va in bici, si fa spese, ecc.). Per la gente, un tale chiuso in una stanza seduto ad ascoltare la musica…deve essere un tale un po’ matto.

Per noi, ai nostri tempi (l’ho detto! M’è scappato!), non era così! Negli anni ’70 ci si ritrovava a casa dell’amico che aveva l’impianto e si ascoltava tutto quel bendiddio di musica che allora usciva a getto continuo, quasi quotidianamente.

La musica fece da traino, allora.

Se oggi, riuscissimo a ri-produrre musica con intensità e freschezza tali da restituirle un po’ d’anima, d’afflato, potremo re-suscitare interesse.
La bellezza potrebbe essere la chiave per ri-generare passione.
Ma è questo il tempo per quella lenta ed accurata ricerca tesa a suscitare l’emozione profonda ed intima generata da un ascolto musicale totalmente coinvolgente?
I modi di vivere e di convivere sono assai mutati rispetto allora.
La musica è cambiata? Non molto.
E gli strumenti per sentirla? Quelli sì.
Direi che i supporti e le macchine utili alla loro riproduzione sono il tratto maggiormente distintivo fra le tre generazioni che hanno vissuto e vivono i fasti ed i nefasti dell’hi end.

Mi spiego.

La generazione antecedente la mia, quella dei nati prima e durante o subito dopo la seconda guerra mondiale, è quella più classicamente analogista: il digitale venne molto dopo la nascita della loro passione per l’hi-fi.

Il giradischi spadroneggiava nei loro sogni.

La realtà del boom dell’hi-fi di massa dei primi anni ’70 vide protagonisti massificanti giradischi giapponesi molto di plastica, ma gli audiofili più raffinati, armeggiando coi Thorens, anelavano per il Transcriptor visto nella scena finale di “Arancia Meccanica”, per il molleggiatissimo LinnLP12 o per lo svizzero Goldmund, per dirne tre.

Successivamente al boom del mangiadischi e del 45 giri, con l’avvento del rock, dei Beatles e per la classica, il long playing 33 giri divenne protagonista indiscusso. Tuttavia gli appassionati più sofisticati che non gradivano le imperfezioni meccaniche del vinile vedevano di buon occhio ascoltare anche con … il Revox, il registratore commerciale a bobine di casa Studer o con qualche suo simile orientale.

Non per la musica leggera, ma nel campo del jazz e, soprattutto, della musica lirica e sinfonica, c’era la possibilità di reperire bobine di buona qualità audio edite da etichette importanti come RCA o Mercury (sono ancora in circolazione: assai valide le due piste (tracce), quelle a quattro, salvo poche eccezioni, suonano invece compresse). Sto alludendo a veri e propri nastri venduti in bobine da 17,5 cm di diametro, non alle rivoluzionarie audio-casette, che se rappresentarono una vera, intelligente e pratica novità per ascoltare la musica in auto o per registrazioni domestiche, non certamente lo furono, proprio non lo potevano fisicamente, in termini di qualità sonora.

La generazione prima della mia, quella del solo giradischi come fonte o con a fianco, in non rari casi un registratore a bobine Revox o Teac o Philips, è rimasta sostanzialmente fedele al vinile ed all’acetato anche dopo il prepotente avvento del digitale, considerando quest’ultimo il perenne inseguitore del primo.

La generazione di mezzo, la mia, non aveva ancora fatto in tempo ad avere una rispettabile collezione di vinili, che sopraggiunse il digitale.

Salutato come la panacea di tutti i mali analogici, il sistema CD accusò subito alcuni limiti giovanili. In contrasto al rapidissimo successo commerciale nella vendita sia dei supporti che delle macchine di lettura, venne ammantato di diffidenza dagli amanti del bel suono condito anche da un certo grado di disprezzo che ancor oggi qua o là emerge benché i problemi iniziali siano stati superati in gran parte anche in modo brillante.

Queste perplessità circa il modo di suonare delle fonti digitali, creò negli anni ’90 le basi per il rilancio del suono analogico. Se negli anni ’80, contemporaneamente al lancio del CD, aveva preso vigore la fiorente riscoperta delle grandi registrazioni analogiche del passato, conseguentemente, nel decennio successivo, assumono corpo succose iniziative commerciali atte alla ri-pubblicazione di LP riguardanti la musica classica e il jazz dal grande contenuto artistico e dal magnifico suono stereofonico dei decenni trascorsi.

È in questo periodo che il seme della nuova vita del disco nero inizia a ri-generare suoi freschi germogli.

La ri-crescita è stata lenta, ma inesorabilmente ha dato vita ad una piantina che non sarà stato l’albero d’alto fusto degli anni ‘70, ma che oggi ha un buon mercato come supporto… “un po’ sofisticato”.
Tuttavia, per una trentacinquina d’anni il Re è stato lui: il dischetto argentato.

La generazione mezzana con la sua poetica anima analogica ed il suo pragmatismo digitale, con andamento ondivago, con tutta quell’ offerta di mercato, ha potuto fare sia il pieno analogico che quello digitale!

La generazione successiva ha visto il tramonto del supporto fisico digitale e l’avvento di quello impalpabile, scaricabile, liquido. La fonte principale è il mezzo informatico, il download, lo streaming di files a risoluzione più o meno alta.

Questa è la nuova possibilità dell’audio nel campo delle fonti.

È il “vecchio” digitale che ha cambiato pelle, che si è dato una rinfrescata.

Ma qualcuno compra giradischi. Ancora. Qualcun altro produce ancora LP e … non solo.

Digressione personalissima: a me che non interessa avere mille titoli dentro la memoria di un tablet, a me che piace andare a cercare un album sugli scaffali, trovarlo, estrarlo, tenerlo in mano, leggerne le note in copertina ed ascoltarlo, ma soprattutto, a me che interessa esclusivamente la qualità dell’ascolto, la cosiddetta musica liquida al momento non intriga.

Ciò per giustificare il fatto che questa modalità non potrà essere contemplata nella prova d’ascolto che mi appresto a raccontare.

Fine della personalissima digressione.

Ovviamente una divisione in generazioni della storia dell’Hi-Fi così come ve l‘ho presentata in questa introduzione è una operazione spartana, fatta con la scure. E’ volutamente pretestuosa ed anche un po’ sciocca: a nessun audiofilo quarantenne è vietato comprarsi un bel gira-gira (così chiamano il giradischi in certi ambienti snob), come a nessun settantenne è preclusa la figata di scaricarsi un bel file ad alta risoluzione.

Il fatto è che la conoscenza e la tecnologia legate all’audio sono andate mutando nel tempo creando generazioni di audiofili più o meno fra loro discrepanti per gusti d’ascolto ed interessi.

Anche se ognuno può vivere la propria passione nel modo che ritiene più opportuno, è innegabile che l’avvento di tecnologie che scompaginano il campo è un momento fondante, quasi un “imprinting”, un “centro gravitazionale” attorno al quale ruotano le vicende dell’intera comunità (dell’audio, nel nostro caso) che si plasma in quel determinato periodo, segnandola, definendola.

Mia nipote non ha idea di cosa fosse il mondo prima della smartphone.

Io ne ho una vaga di cosa fosse prima del motore a scoppio.

L’hi-fi prima del digitale era in un certo modo sia come gusti d’ascolto sia per la “motricità” e le tempistiche necessarie per i suoi gesti e per i suoi riti corollari.

Il digitale, il suo linguaggio, i suoi dispositivi l’hanno cambiata.

La mutazione è avvenuta con epicentro la generazione target dei nati nel secondo dopoguerra marcando significativi cambiamenti culturali.

Ma la storia è un’insieme di storie che si intersecano rendendola tortuosa, intricata, ellittica.

Se così non fosse, perché, oggi, altri ed io ci troviamo una entrata del preamplificatore occupata da cavi bilanciati che provengono da un registratore professionale analogico a bobine a due piste (tracce)? Nel 2020?  Dopo quaranta anni di digitale? All’epoca del download e dello streaming? Ma anche in un’epoca dove l’offerta di vinili di grande pregio è più che mai nutrita, in anni in cui esiste il più vasto assortimento di giradischi e testine di altissimo livello di ogni tempo?

Che ci fanno gli Studer, gli Ampex, i Telefunken, i Nagra, gli Otari, nelle case degli audiofili?

La colpa … è ancora del digitale. Ma stavolta la causa non sono i suoi supposti limiti, ma le sue qualità. Sono le nuove possibilità che il digitale ha saputo offrire ai professionisti del suono e dell’immagine che hanno fatto dismettere a studi di registrazione e televisivi, costose e gloriose strumentazioni analogiche a favore delle nuove a funzionamento numerico.

E così sono finite sul mercato del WEB, inizialmente offerte a prezzi stracciati rispetto al loro imponente prezzo d’acquisto iniziale.

Ma poi, visto il crescente interesse, diventando sempre più desiderate, le offerte si sono rarefatte ed i prezzi saliti.

Oggi l’offerta è ancora significativamente presente sul WEB per i prodotti amatoriali come i Revox o Teac, ma per i prodotti d’alta fascia è saggio rivolgersi a professionisti specializzati come “Musica e Video” di Ravenna o “The Recorderman” a Varese, per parlare dell’Italia.

Quindi, se negli anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo, i registratori analogici professionali a bobine, salvo rarissimi casi, sono abbandonati dagli studi di registrazione, gli stessi, nella seconda decade del nuovo secolo, vengono adottati da audiofili particolarmente appassionati, usufruendo così di una seconda, più salottiera esistenza.

Definiti i contorni dell’offerta, rimane da individuare quelli della domanda: perché alcuni appassionati hanno acquistato un registratore analogico professionale?

Possiamo fare due ipotesi.

Chiamiamo la prima quella de “ il fanciullino” ( “….Non l’età grave impedisce di udire la vocina del bimbo interiore….E se gli occhi con cui si mira fuori di noi, non vedon più, ebbene  il vecchio vede allora soltanto con quegli occhini che son dentro di lui, e non ha avanti sé altro che la visione che ebbe da fanciullo…” da: Il fanciullino – Giovanni Pascoli, 1855-1912).

Un registratore professionale è … prima di tutto una bella macchina, che trasuda sostanza, fatta dalla robustezza dallo spigoloso metallo del telaio, ma anche dalla scultorea rotondità cinematica delle due bobine, un trionfo di congegni meccanici, di sobri tasti e di danzanti VU meter illuminati. C’è un minimo da tribolare per far partire il nastro, ma poi … è uno spettacolo.

Ok, non ha il telecomando (alcuni lo hanno) e non si può saltabeccare fra le tracce come col CD o fra i titoli come con la musica liquida, ma che importa!

Il fatto che non sia affatto una macchina per giocare, che non ne abbia proprio le sembianze, può dar luogo ad un gioco bellissimo?

Può, il registratore a bobine professionale, essere definito un prodotto vintage ed essere entrato nelle grazie di audiofili come opportunità per nutrire i sogni che riportano indietro, in un tempo lieve e poetico che la vita offre a chi ha già navigato abbastanza per le procellose vicende della vita?

La seconda ipotesi è quella che il registratore analogico a bobine sia funzionale nel percorso di ricerca verso il  “suono assoluto” , ovvero, seguendo Harry Pearson (1937-2014; fra i più grandi giornalisti audio di sempre, fu fondatore e direttore di “The Absolute Sound”, nei suoi anni migliori la più controversa ed influente rivista audio della storia), alla riproduzione della musica avendo come modello quella vera suonata in uno spazio reale.

Alcuni affermano che il nastro master ¼ o, ancora meglio, da 1/2 pollice, fatto girare su un registratore analogico professionale, sia il miglior modo oggi disponibile per sfiorare l’inaccessibilità del suono assoluto.

Sarà vero che questo sistema è in grado di superare il digitale casalingo ed andar perfino oltre le qualità tradizionalmente riconosciute alla riproduzione da vinile di superbo lignaggio?

Il suo lento, ma crescente successo non dirime le questioni: può dipendere dal verificarsi di una ipotesi o dall’altra o dal mescolarsi delle due.

L’americana Acoustic Sounds attualmente è il più grande distributore al mondo di musica su supporti di alta qualità.

Con l’etichetta “Analogue Productions-Ultra Tape”, da oltre due anni, ha iniziato la diffusione di grandi titoli di musica anche in formato nastro in bobina da 1/4 di pollice. Vedendola da un’ottica europea, si tratta di una operazione dai numeri giocoforza limitati per il costo delle bobine e per la diffusione elitaria delle macchine di lettura professionali. Tuttavia, se Chad Kassem, l’appassionato capo della Acoustic Sounds, ha seguito questo indirizzo, di certo “ha fiutato l’aria”. Non è solo. E non c’è solo l’Europa (o gli USA): oggi il mercato con la M maiuscola è là, in oriente, che, in questo senso, … è di nuovo lontano.

Anche altri, nel mondo, hanno dato il via a produzioni iniziali di musica registrata proposta (anche) su nastro magnetico da ¼ di pollice.

Oggi il mercato offre un discreto numero di titoli su bobina, prodotti rivolti ad appassionati che …. possono.

Un titolo in bobina costa infatti otto/dieci volte il suo corrispettivo su LP, il quale, a sua volta, se di alta qualità, costa il doppio o il triplo del corrispondente cd.

A parziale contropartita, se parliamo di apparecchi di alto livello, un registratore a bobine professionale revisionato non costa di più di un sistema di lettura digitale domestico molto buono ed ha un costo significativamente inferiore a quello di un sistema testina-braccio-giradischi-stadio phono importante. Tuttavia, in assoluto, uno buono, uno revisionato, perfettamente funzionante, non lo acquisti col ricavato della rottura del salvadanaio riempito durante la scuola dell’obbligo.

Ne vale la pena?

Per merito (o a causa!) di Musica & Video mi ritrovo fra le mani tre titoli in bobina editi dalla Analogue Productions dei quali ho di mio la copia in lp ed anche in cd.

Dopo tanto cianciare è arrivata l’ora che li senta.

Sono:

  • Rimsky-Korsakoff: Scheherazade –

Fritz Reiner, Chicago Symphony Orchestra – RCA LSC  2446

Un grande e famoso RCA che sta nell’Olimpo delle registrazioni di musica sinfonica.

Il 33 giri suo competitore sarà la ristampa Chesky Records degli anni ’80. Quest’etichetta, prima di un suo originale e nutrito catalogo jazz, assieme ad OMR, fu pioniera nella ricerca e ri-pubblicazione su vinile e successivamente in cd di un buon numero di registrazioni RCA appartenenti alla cosiddetta “epoca d’oro della stereofonia”

Per il digitale avremo lo xrcd JMCXR-0015, dal lussuoso cofanetto.

  • Rhapsodies – Liszt, Enesco, Smetana.

Leopold Stokowski, RCA Victor Symphony Orchestra –  RCA  LSC  2471.

Commento da “I dischi dell’età dell’oro” di S. Rama (riferito al 33 giri originale RCA):” Disco dal suono incredibile nella sua maestà e nel grande flusso di musica. C’è l’unanime consenso dei critici audio circa la bellezza delle grandi ondate sonore che riversa nella stanza “.

Il nastro Analogue Productions-Ultra Tape sarà confrontato con la prima ristampa su vinile della Classic Records e con il corrispondente CD RCA 09026 61503.

  • Hope – Triloka Records

Disco jazz importante ed ispirato. Album live del cantante, trombettista, flicornista sudafricano Hugh Masekela (1939-2018) col suo gruppo (L. Matshiza, chitarra; T. Mkhize, tastiere; B. Kumalo, basso; D. Duewhite, batteria; R. Kabaka, percussioni; N. Mahlanghu, sassofono), registrato dal vivo a Washington D.C. nell’agosto del 1993.

Registrazione pulsante, dinamica, piena di colori.

Il master tape se la vedrà con LP 33 giri 180 gg (esistono anche belle edizioni a 45 giri) e con il cd standard.

Ho scelto una eterogeneità di pubblicazioni per non sposare un unico taglio, una unica tendenza, un unico gusto.

Mi spiego.

In questo piccolo panorama ci sono edizioni di diversa provenienza ed epoca.

Un nastro master non è (era) fatto per essere diffuso come tale, ma è “l’origine” dal quale ricavare, in ambito analogico, la lacca per imprimere una matrice con la quale si producono un certo numero di vinili.

Il momento di fare l’incisione della lacca, il cosiddetto “taglio”, determina alcune scelte da parte del produttore. E’ soprattutto in questo frangente che si prendono decisioni sonore che non sono sempre determinate dalla ricerca della più elevata qualità d’ascolto. Dato lo stesso nastro master, le edizioni di quelle registrazioni “tagliate” da editori differenti o, addirittura, dal un medesimo editore, ma in tempi ed in luoghi diversi, non suonano eguali.

Le edizioni di “Scheherazade” stampate nel corso degli anni dalla stessa RCA (diversi tagli di stampa sia su etichetta con cane con l’ombra o quella con cane bianco) offrono un’estetica sonora ognuna un po’ differente dall’altra.

Il Master Tape, quello delle primissime fasi di una lavorazione di un titolo, offre tutto il panorama di colori e di dinamiche della registrazione.

Con il taglio della lacca si prendono delle direzioni, si operano delle scelte a favore di qualcosa e a discapito di qualcos’altro.

La Deutsche Grammophon (DG), forse la più prestigiosa etichetta discografica per la musica classica di sempre, negli anni ’70 ed ’80 era nota per il contenuto artistico dei suoi titoli, per i suoi grandi interpreti e perché i suoi vinili erano pressoché privi di difetti meccanici, di tic-toc. Erano i preferiti dei melomani.

A parte rarissime eccezioni, essi suonavano però compressi e sciatti alle basse frequenze e perciò non piacevano agli audiofili.

Tuttavia, sentendo oggi qualche nastro master di vecchi titoli DG, balza … alle orecchie come dinamica, trasparenza e bassi non facciano affatto difetto.

Ottennero quella (quasi) perfezione meccanica evitando di scavare nel profondo i loro solchi e di renderli tormentati, cioè sacrificando bassi e dinamica. Ma resero i loro vinili più facili da stampare e da tracciare.

L’opposto di quello che ostinatamente fecero i coniugi Cozart-Fine alla Mercury con le registrazioni dei loro ingegneri R. Fine e C. Piros. Cercarono di trasferire per intero su LP tutta la potenza e la pienezza catturata durante le loro strepitose registrazioni stereofoniche, dando vita a titoli memorabili, insuperabili (uno per tutti: Stravinsky: The Firebird – Dorati, London S. O. – SR 90226) di musica sinfonica, ma producendo anche un sacco di copie difettose o comunque difficilmente riproducibili per i sistemi di allora. Esse si tradussero in un mucchio … di resi, che, alla lunga, contribuirono al fallimento e alla liquefazione della Mercury nella Philips.

Ognuno di questi, insomma, diede nerbo alle proprie opzioni operando al tornio dove si crea la lacca.

Perciò il prodotto che arriva al consumatore è un po’ diverso dal nudo e crudo materiale registrato sul nastro master e così ho preferito avere …più punti di vista piuttosto che una visione … monoculare.

Ma anche il nastro master non è poi così…. nudo e crudo e se ogni prodotto venduto come tale lo fosse veramente, questo articolo avrebbe meno ragioni di esistere.

Quando si parla di Master Tape a quale fase della lavorazione antecedente alla lacca ci si riferisce?

Banalmente a ciò che giunge al tornio su di un nastro a due (tracce) piste?

O a qualche fase più precoce?

Esistono alcuni passaggi su nastro prima di diventare l’esecutivo precedente la lacca.

Poiché in analogico ogni passaggio sottrae qualcosa, credo che al proposito ci si debba intendere bene e che sarebbe necessaria, per ogni nuova uscita su nastro a bobine, una più puntale informazione da parte dell’editore.

Intanto, ad esempio, credo che ci si dovrebbe esclusivamente riferire a produzioni interamente analogiche, non a registrazioni digitali riversate su nastro analogico (!); inoltre ritengo che per master tape debba intendersi l’elaborato su due (tracce) piste più vicino alla ripresa sonora, non una qualsiasi registrazione stereofonica su nastro.

In commercio si possono trovare prodotti che non rispettano queste peculiarità. Lo si nota dal diverso contenuto dinamico e in termini di trasparenza e consistenza armonica di stesse registrazioni acquistate da offerenti diversi.

L’utilizzazione di un registratore analogico professionale e l’acquisto di costosi master tape può essere di soddisfazione audiofila assoluta se il risultato d’ascolto non segna una chiara differenza rispetto a quello con le fonti più tradizionali?

Quanto è importante al tal fine la qualità delle macchine di lettura?

Non dimentichiamoci che il rilancio dei Tape è dovuto alla nuova vita che il mondo audiophile  ha donato ai registratori professionali; p r o f e s s i o n a l i ! C’è differenza fra uno Studer e un Revox ed essa non sta solo nella robustezza della costruzione o nell’aspetto più imponente dei primi, ma risiede soprattutto in una nettamente superiore qualità audio!

La nostra prova vedrà l’utilizzo un A807 MKII, un apparecchio degli anni ’80 definito “compatto” dalla Studer (negli ultimi decenni la tecnologia ha prodotto un profondo mutamento del concetto di compattezza; oggi una elettronica 50x45x20 cm. di oltre trentacinque kg non potrebbe essere definita come tale!).

Privo di VU-meter, che in fase di riproduzione sono divertenti, ma non necessari, revisionato e calibrato, è un affidabile, eccellente prodotto per entrare sontuosamente nel mondo dei bobine professionali.

Gli LP verranno infilzati nel mio “vecchio” sistema un po’ ibrido formato da giradischi Basis 2500 Signature con motore a volano e suo controllo elettronico VPI, braccio Vector, testina Dynavector “te kaitora rua”, pre phono a batterie Sutherland.

I cd gireranno in un lettore “artigianale” in due telai un po’ particolare, munito di alimentazione mista batteria-rete progettato e realizzato un paio di lustri fa dalla AN (Antonio Nincheri audio di Firenze) utilizzando la meccanica Philips Cd-Pro.

Monta quattro valvole 6SN7 e componentistica di alto livello, che M. de Antoni ha implementato negli anni, rendendolo un lettore digitale in grado di produrre un suono “analogico” di livello davvero eccellente.

Come valori commerciali in campo, lo Studer A807 equipara l’apparecchio AN di lettura digitale, mentre il sistema per i vinili vale circa il triplo.

Il resto del sistema è costituito dal nuovo preamplicatore Alieno e dal finale Alieno 250 (300b x 2 = 250 W), dai diffusori Conquistar Spirit, dal sub Wilson Benesch Torus, connessi con cablaggio De Antoni Luxury, il tutto in una stanza 5 x 4 x 3 m. acusticamente trattata con alcuni DAAD e con un paio di Volcano e di Polifemo di Acustica Applicata.

Con l’aiuto di un fonometro, ho ascoltato le diverse fonti cercando di livellare il volume.

Scheherazade

Della suite sinfonica di Nikolaj Rimskij-Korsakov ho preso in esame lo scintillante quarto movimento, nel quale sono presenti le idee musicali dei tre precedenti, un susseguirsi di temi che si sviluppano attraverso il variare dei tempi (allegro molto, lento, maestoso, ecc.) e vividi contrasti cromatici e dinamici.

Clima sonoro

Assieme ad un maggior grado di liquidità del suono degli archi,

…………………………….

questa è la differenza principale fra la copia del master, il vinile ed l’ XRCD.   (la frase sembra incompleta)

Quello che il primo riesce a ricreare è avvolgente, più caldo, in un certo senso più confortevole. Si è più immersi nella musica, non solo in senso fisico, ma anche sul piano emotivo.

Ciò, a mio parere dipende da due fattori:

L’immagine che il registratore restituisce è più ampia rispetto a quella del cd ed anche a quella dell’edizione Chesky a 33 giri e vi è una più pregnante sensazione di presenza dell’ambiente di registrazione.  Comunque l’orchestra rimane egualmente meglio distribuita ed amalgamata all’interno del fronte sonoro, senza trovare soluzione di continuità dall’esterno del diffusore di sinistra fino all’esterno di quello di destra, non rarefacendosi al centro destra ed al centro sinistra come invece un po’ avviene con il pur ottimo XRCD.

La seconda ragione risiede nella tonalità più calda, nel nastro più “appoggiata” sui medio-bassi e sui bassi superiori.

Dinamiche

Non osservo sostanziali differenze su un piano quantitativo, mentre le trovo su quello qualitativo.

Tutti e tre offrono una dinamica superba.

Tuttavia quella del disco e soprattutto del XRCD sottolinea in modo più netto i contrasti dinamici degli strumenti appartenenti al registro alto, mentre quella del nastro “proviene” maggiormente dalle sezioni di strumenti del registro basso.

Ciò determina variazioni sostanziali di estetica sonora.

Nella riproduzione col cd, ma anche col disco nero, è più facile individuare e seguire i singoli strumenti. Ciò crea un’ammaliante sensazione di luminosa trasparenza, che tuttavia è “presenza hi-fi”. Col nastro si ha invece una più sana sensazione d’insieme, dove apparentemente i particolari sono meno accessibili, per il motivo che i bassi vengono rappresentati con una più vivace energia.

Anche col nastro si ha una netta sensazione di trasparenza, che ha però una musicalità più ambrata.

Non vorrei però che questa descrizione generasse idee errate: l’edizione in vinile e in XRCD della registrazione RCA di Scheherazade sono lavori eccellenti, di altissimo livello. Le differenze che ho raccontato emergono confrontando direttamente più volte i tre diversi supporti, ma esse apparirebbero assai più difficili da afferrare ad un ascolto disinvolto o ad un confronto dilazionato nel tempo.

Ironizzando, ma non molto, direi che lo Scheherazade su master tape è il supporto più adatto per il melomane abituato ad ascoltare musica sinfonica anche dal vero, quello su XRCD è l’ideale per chi vuol far sentire le meraviglie sonore di un sistema di riproduzione audio ben suonante e che entrambi sarebbero utili allo studioso per comprendere l’interpretazione di Fritz Reiner del più famoso poema sinfonico di N. Rimskij-Korsakov.

Il disco in vinile è, in questo caso, nel mio sistema (per merito della macchina AN e del XRCD), più somigliante al suono del supporto digitale che di quello della copia del nastro master Analogue Productions.

Rhapsodies

Rispetto al precedente RCA-LSC, qui non cambiano solo programma musicale, direttore ed orchestra, ma anche luogo di registrazione ed ingegnere del suono: non più il mitico L. Layton, ma il meno celebrato R. Simpson.

Infatti suona diverso, per certi versi in modo anche più sorprendente (a causa soprattutto della dinamica degli ottoni e dei legni del registro inferiore, ovvero la ragione di quelle sue poderose ondate di suono che invadono la stanza – è esattamente così – raccontate nel libro di S. Rama).

Con questo titolo le differenze fra i tre supporti in mio possesso si fanno ben marcate, con gli analogici che suonano ben più rigogliosi, dinamici e vividi del digitale standard.

Tuttavia questo titolo è oggi reperibile su cd commerciale per pochi euro, mentre gli altri due supporti sono ben più costosi. Poi il programma musicale del cd non include solamente la Rapsodia ungherese di Liszt, quella rumena di Enesco e la Moldava di Smetana, ma aggiunge un paio di ouverture di Wagner (quella del Tannhauser e del Tristano ed Isotta) sontuosamente registrate da L. Layton.

Sul piano della qualità audio, benché anche il suono del supporto digitale dia la paga a quello di molte asfittiche, imbalsamate, striminzite, piatte registrazioni di musica per grande orchestra dei nostri giorni, non c’è molto da discutere: rispetto al master tape e al lp, il cd rimane armonicamente più povero, col “fiato più corto”, con l’immagine più piccola e con le dinamiche più limitate.

L’edizione della Classic Records in vinile suona estremamente vivida, eccezionalmente dinamica. Questa è la sua più eclatante qualità che fiorisce soprattutto con i brani di Liszt ed Enesco, rendendoli esplosivi.

Nel master tape ciò si somma ad una serie di altre proprietà, rendendolo insuperabile.

Godendo di uno sviluppo armonico più ampio, il suono è più denso e profondo; gli archi divengono più gentili e caldi, rimanendo tali anche nei passaggi più intricati ad alto livello (in passato ho avuto l’ LP RCA-LSC d’epoca: le differenze maggiori fra quest’ultimo e l’edizione Classic Records erano due: la maggior macrodinamicità della ristampa a cui nell’originale faceva però da contraltare una più elegante e raffinata presentazione sonora degli strumenti appartenenti al registro alto; se il ricordo non mi tradisce, le sonorità del vinile anni ’60 erano più simili a quelle del master tape).

Il suono dei bassi assume maggior energia ed anche organica complessità che, tuttavia, facilita l’ascolto, rendendolo più viscerale; memorabili i passaggi dei tromboni, dei violoncelli e il pizzicato contrabbassi; più articolata e “leggibile” la sezione ritmica, timpani in testa.  Il soundstage è maggiormente sviluppato in profondità e l’orchestra è distribuita al suo interno in modo più verosimile ed ordinato rispetto alla presentazione egualmente estesa in larghezza, ma un poco più piatta ed in avanti del disco.

Con il nastro sia nei passaggi di basso che in quelli di alto livello, si ha costantemente la sensazione di grande naturalezza sia in termini di percezione dello spazio dove è avvenuta la registrazione che in quelli di contrasto dinamico: il livello di distorsione generale rimane inferiore rispetto anche all’altro supporto analogico, tanto da consentire livelli di pressione sonora molto elevati.

Masekela – Hope

Come per il precedente e negli stessi termini, anche in questo caso il cd standard mostra una qualità sonora certamente buona, tuttavia non paragonabile a quella supporti analogici. E’ a loro inferiore sia intermini spaziali che dinamici, come ricchezza dello sviluppo armonico e come consistenza della pasta sonora.

Con il set-up del mio sistema testina-braccio-giradischi, il disco nero produce una atmosfera sonora più chiara di quella del nastro che però offre immagini sonore virtuali che si staccano dallo sfondo in modo più nitido. La tastiera e la chitarra elettrica che accompagnano sommessamente il parlato all’inizio del brano “Stimela” sono poste rispettivamente a destra e a sinistra della voce, mentre, un po’ più in profondità, sono disposti il basso e la batteria.

È interessante notare come le dimensioni e la pienezza armonica di questi due strumenti, soprattutto del primo, divengano sempre più importanti ed accurate passando dal cd, al lp, al master tape. Col cd il loro suono è fin troppo esile e defilato. Con il disco in vinile acquistano decisamente in trasparenza, ma anche in liquidità diventando anche più voluminosi ed armonicamente meno asfittici.  Col nastro e le sue medio-basse, questi strumenti acquisiscono ancor più dimensione, corposità e … si materializzano.

In generale, sia il nastro che il vinile offrono notevole senso di presenza, ma in modo differente: quello del primo affonda le sue radici nella profondità, nella solidità e nell’articolazione delle basse frequenze mentre quello del secondo è reso più evidente dal carico energetico, dalla luminosità degli strumenti del registro più alto.

Così i contrasti dinamici ed il punch offerti dal primo sono veicolo per un più elevato coinvolgimento emozionale, per una più intima e profonda immersione nell’ascolto.

Così, con il nastro, con la sua capacità di saper ricreare un soundstage ampio e profondo, ma anche “terreno”, solido, non etereo, non impalpabile, si è meglio illusi di vivere l’evento là dove è stato registrato.

Le differenze fra nastro e il vinile a 33 giri in mio possesso non sono eclatanti, ma esistono e risiedono principalmente nella qualità dei medio-bassi e dei bassi superiori e nella disponibilità d’energia ai bassi inferiori.

Conclusioni

Come il lettore avrà notato, esistono alcuni punti di convergenza, alcune costanti fra i tre ascolti.

I master tape in genere offrono un suono maggiormente avvolgente, un‘immagine sonora meglio definita e più sviluppata soprattutto in profondità, con bassi inferiori maggiormente presenti e medio-bassi dotati d’attacchi dinamici più repentini ed articolati, una restituzione liquida e ricca dal punto di vista armonico degli strumenti del registro alto i quali rimangono così incastonati nell’immagine sonora non proiettandosi in avanti.

Credo perciò di poter sostenere che l’impiego del registratore analogico professionale a bobine e di veri nastri master consenta di ottenere risultati sonori che vanno nella direzione del “suono assoluto”.

Non è quindi la ricerca di un’esperienza visiva e tattile gratificante dal sapore vintage il motivo della ri-nascita dell’interesse audiofilo per queste

macchine analogiche o, almeno, non lo è come ragione principale, la quale è altresì il SUONO.

Le differenze fra i supporti sono più o meno ingenti, più o meno importanti a seconda di quanto ci sia rimasto dentro i dischi neri e argentati rispetto al contenuto originario del nastro master.

Generalmente, se le edizioni in vinile o in cd sono buone, la differenza è meno percepibile. Tuttavia una discrepanza, piccola o grande che sia, se il nastro è un vero master, c’è sempre e sempre, con i master tape, va a favore di una riproduzione … musicale, di sonorità più naturali.

Ciò vale soprattutto quando i titoli NON sono quelli già acclamati dagli audiofili perché molto ben suonanti su digitale o su 33 giri, ma quando ci si riferisce a produzioni popolari e diffuse soprattutto di musica rock, sinfonica o lirica, cioè, ad esempio, agli storici dischi che hanno segnato la nostra gioventù, tanto musicalmente attraenti quanto affetti da un suono compresso ed opaco.

Mi è capitato di risentirne alcuni magistralmente riprodotti da nastro master con registratore analogico professionale in occasione di dimostrazioni o di manifestazioni hi-end. La differenza col supporto commerciale è, in questi casi, davvero sostanziale, profonda, qualche volta imbarazzante.

Ed in ciò, a mio parere, sta infine la novità: la possibilità di ascoltare la grande musica, quella che ha forgiato ed attraversato le nostre generazioni dell’audio, completa di tutta la sua intensità e del suo splendore, finalmente libera dai vincoli degli usuali supporti passati.

L’aver riportato all’attenzione della comunità audio le qualità sonore di master tape riprodotti con le magnifiche macchine professionali che li hanno registrati, ha creato un ulteriore innalzamento dell’asticella delle qualità potenziali della stereofonia in rapporto al suono naturale, ha messo in moto nuova attenzione, un piccolo, ma costante flusso d’interesse, non un fiume, forse solo … un ruscello … seguendo il suono del quale è quindi oggi possibile … riuscir , come mai prima, a … risentir le stelle!

Italo Adami

Continua ad approfondire…

Avalon Story

(ovvero: quanto il suono riprodotto può essere vicino al il suono vero?) Verso la metà degli anni ’80 i diffusori si dividevano più o meno in due categorie: gli elettrostatici, con la loro ampia forma rettangolare, a volte semicircolare, determinata da pannelli attivi...